Ruggeri recita fino a ottantadue anni senza mostrare stanchezza o cedimenti, ma anzi migliorando sempre le sue interpretazioni; la sua recitazione, malgrado il procedere degli anni, si va sempre più affinando, permeandosi di calibrate stilizzazioni e taciti, sommessi preziosismi; acquista nuove sfumature e nuove velature espressive che con la sua dizione perfetta arricchiscono i suoi principi artistici tesi all’indagine del personaggio. Il pubblico lo ascolta rapito dall’atmosfera di tensione drammatica che Ruggeri crea per fare partecipare il pubblico alle sue sensazioni, per innalzarlo e farlo penetrare in quel tormento che non sembra recitato, ma assomiglia alla realtà.
Nonostante pubblico e critica si siano accorti dell’eccezionale recitazione di Ruggeri, dicitore impeccabile e un tantino trasognato, già alla vigilia della prima guerra mondiale, pochi intendono il valore rivoluzionario della sua arte, limitandosi a distinguerlo dagli altri attori a lui contemporanei. Ruggeri viene salutato soltanto più tardi come il nostro massimo attore e riconosciuto come uno fra i più grandi in Europa: non è solo l'ottimo attore da tutti lodato, ma è l’attore nuovo che con un paziente, macerante lavorio d'affinamento sopra se stesso, porta sulla scena italiana una recitazione inconsueta. Fino all’affermarsi di Ruggeri il grande attore sembra esigere, nel significato stesso dell'aggettivo «grande», sia la valutazione della sua corporatura, sia la potenza della voce, così da venire immaginato come un dominatore della scena. Il comune giudizio prevede che l’arte dell’attore debba avere un fondamento di imponenza fisica - come sembrava convalidato dall’erculeo Salvini, dal massiccio Novelli, dal corpulento Zacconi, dal gigante Giovanni Grasso e, all'estero, da Lucien Guitry - alla quale corrisponde una voce altisonante e non certo sommessa come quella di Ruggeri.
Inoltre, in un periodo in cui gli attori cercano di rappresentare la verità in scena (Novelli recita tossendo, Grasso usa una dizione tutta scatti e sussulti, Zacconi si ispira ai suoi studi nelle cliniche per riprodurre i balbettii degli epilettici e degli schizofrenici), Ruggeri è il primo a capovolgere la situazione. La sua recitazione non riproduce il discorso parlato come fanno i suoi colleghi, ma è una melodia, attraverso la quale anche gli accenti della prosa quotidiana assumono via via notazioni impercettibilmente musicali, suggerendo sensazioni ineffabili. La critica a lui contemporanea fa risalire tale componente della sua interpretazione al personaggio di Aligi ne La figlia di Iorio, poiché Ruggeri quando recita i versi sembra davvero che li canti, traendone tutta la suggestione da ritmi e rime e dieresi e cesure; si pensi alla maniera in cui propone Quanto è bella giovinezza con aerea festosità.
Fondamentale si rivela infatti l’incontro con D’Annunzio e con il personaggio di Aligi de La figlia di Iorio. Unica è la maniera in cui si cala interamente, facendole proprie, nelle vesti del pastore Aligi. Anche D’Annunzio in occasione di una riedizione de La figlia di Iorio interpretata ancora da Ruggeri nel 1934 scriverà all’attore, riconoscendo l’identità totale fra Ruggeri e il suo personaggio, nonostante nel frattempo sia stato interpretato da altri: «Ho riudito nella notte la voce di Aligi, che è sempre la tua e solo la tua. [...] E mi sembra di risvegliarmi all’arte dopo settecento anni» (telegramma di Gabriele D’Annunzio a Ruggero Ruggeri, settembre 1934, pubblicato in La scena del vate, a cura di Luca Ronconi, Milano, Electa, 1988, p. 66).
Si può affermare che Ruggeri sia rinato con Aligi come attore, poiché anche nelle interpretazioni successive non dimenticherà mai quel particolare modo di dizione e di atteggiamento che D’Annunzio inventa e spiega agli attori per l’interpretazione de La figlia di Iorio: secondo questo modo, ispirato al simbolismo, la recitazione è divagata, e in alcuni momenti incantata e sognante, il colorito verbale viene estremamente attenuato, mentre le parole ubbidiscono a una cadenza che sembra quasi una cantilena. Ruggeri sembra apparire in uno stato di ipnotismo e sonnambulismo o almeno di continuata distrazione, come se stesse pensando ad altre cose rispetto a quelle che sta dicendo, che gli sembrano invece inutili e impossibili.
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